Ara Artis

di Achille Bonito Oliva

Mimmo Paladino appronta la propria opera negli spazi dell’Ara Pacis mediante sipari e scene che raccolgono contemporaneamente minuetti della fantasia, relazioni tra oggetti attraversati da una memoria antropologica ed una più autobiograficamente ossessiva.
La scena non conosce leggi gravitazionali, anzi riconosce un centro di gravità visiva frontale proprio all’Altare; rappresentato da un “mazzocco” scultoreo in alluminio nero (memoria iconografica della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello), tatuato da tracce di segni zodiacali. Come la “o” di Giotto, ma tridimensionale, la scultura di Paladino si fronteggia in termini di proporzione, armonia e simmetria con l’intera costruzione dell’Ara Pacis, ad introduzione dell’intreccio linguistico e del duetto interdisciplinare tra Mimmo Paladino e Brian Eno, che avviene nel piano sottostante.
Tutte le figure dell’artista napoletano corrono secondo punti e traiettorie individuali, eppure integrate in un unico movimento, quello dell’immagine epifanica, di un’apparizione che connette le singole parti in un passo di danza che trascina verso una perdita di peso.
Se il sipario apre e chiude simultaneamente sul centro vuoto e pieno del foglio, nei dintorni si svolge una rappresentazione scandita in due tempi. Nel primo l’allegria barocca di alcuni elementi come alberi innestati nel muro fa da contorno alla sosta alata e a un intrigo di foglie. Nel secondo ancora un’altra sosta al centro, corpi ed elementi in fuga. La scena ha l’evidenza e lo spessore di un’immagine filtrata dal sogno dell’artista che accomuna nello spazio temporale di essa narrazione di figure ed astrazione di forme organiche.
Uno stato di veglia invece assiste l’altra immagine dove lo stesso artista mette in relazione oggetti apotropaici ed elementi naturali, maschere e forme di oggetti quotidiani.
Lo stato di veglia è quello che permette la calibratura degli elementi, un sistema di intesa tra le varie parti ed una distribuzione legata a meccanismi della memoria. L’opera è messa nella collisione di un doppio rinvio, quello ad una cultura primitiva ed arcaica e quello ad una cultura contemporanea alla sensibilità dell’artista, che sente contemporanea a sé la possibilità di ogni fantastica compresenza.
Mimmo Paladino pratica una pittura e una scultura di superficie, nel senso che tende a portare ad emergenza visiva tutti i dati sensibili, anche quelli più interni. L’opera diventa il punto di incontro e di espansione a vista d’occhio di motivi culturali e di elementi sensibili. Tutto è tradotto in termini di segno e materia, attraversato da temperature differenti, caldo e freddo, lirico e mentale, denso e rarefatto, che affiorano fino alla calibratura del colore.
Fare arte significa per l’artista avere sul tavolo tutto in una contemporaneità girevole e sincronica che riesce a colare nel crogiuolo dell’opera immagini private ed immagini mitiche, segni personali, legati alla storia individuale, e segni pubblici, legati alla storia dell’arte e della cultura. Tale attraversamento significa anche non mitizzare il proprio io, ma invece inserirlo in una rotta di collisione con altre possibilità espressive, accettando così la possibilità di mettere la soggettività all’incrocio di tanti incastri, secondo la definizione di Musil che dice: “l’essere è il delirio di molti.”
Il supporto è dunque una scultura di superficie, praticata come una profondità possibile. Tutti i dati della sensibilità hanno così emergenza visiva, il luogo di traduzione in immagine di motivi sottili ed impalpabili.

Segni della tradizione astratta, la cui matrice è l’opera di Kandinsky e di Klee, e quelli più ridondanti della figurazione si intrecciano in un motivo unico ed organico.
Le diverse temperature della sensibilità si condensano tra loro secondo un legame aperto alla libera associazione.
La rarefazione di ogni temperatura diversa, mentale e materica, trova sulla superficie il luogo adeguato. Paladino non tende mai a dichiarare la propria biografia, in quanto tutto diventa motivo di scultura. La geometria del segno è immediatamente interrotta dall’addensamento di motivi figurativi che si integrano dolcemente, senza salti di tono cromatico, col resto della composizione, come in Miró.
L’idea che sostiene l’immagine, specialmente quella pittorica, è quella del frammento, del particolare che si dilata e si aggrega ad un altro particolare. Lo stato d’animo che regge la composizione è lo stato dell’opera totale, sostenuta con una serie di riferimenti a linguaggi attinti liberamente nella storia dell’arte, del trattamento della superficie alla Matisse. Ma il rimando è sempre attenuato da un recupero interiore del dato, dentro come ad una temperatura sensibile. La superficie diventa la soglia esplicita dell’immagine, anche quando questa sembra sconfinare dal suo piedistallo. I segni sono cifre che colorano e decorano la pelle della scultura.
In Paladino l’arte è sempre rispondere ad una mancanza, una pratica attraversata dal desiderio di risarcire e rimarginare una smagliatura iniziale. L’arte, per principio, è contro ogni perdita. Seppure costringe la propria azione dentro il sistema mentale della negazione, dentro il luogo della catastrofe linguistica. Qui si perpetra la rottura, eppure si cerca riparo dentro il decoroso séparé del linguaggio, qui si ripara all’irreparabile, sotto il cui segno il sistema sociale ha posto lo scambio e le piccole manovre dell’esistenza.
L’arte, transpittura e transcultura di Paladino, introduce un diverso tipo di economia, non semplicemente duale, dare o avere, prendere o lasciare, ma retta da una perfetta dose di opportunismo.
L’opportunismo consiste nell’escludere in partenza la possibilità di una scelta riduttiva, di un gesto univoco che, nella sua univocità, denuncia una sottrazione ed una ulteriore perdita.
L’arte opera volutamente sulla irresponsabilità, sulla soluzione che esclude la funzionalità ed introduce una possibilità, una prospettiva di piacere in cui il gesto non è legato ad una idea di paralisi o di movimento, bensì all’illusione simultanea di entrambe le possibilità.
Paladino ha sempre sviluppato, come tutta l’arte contemporanea, una tensione ambigua, in cui manualità e fatto mentale coincidono e sviluppano una posizione in cui teoria e pratica, pittura e scultura, progetto ed esecuzione non si trovano in una posizione frontale ma integrate nell’evento del fare artistico.
Paladino ha sempre intrecciato intorno alle sue opere graziosi recinti di attenzione, deserti di ombrose sensibilità, capaci di accendere uno sguardo di contemplazione diverso dallo sguardo del quotidiano.
La spada che taglia questa diversa attenzione è il momento magico in cui l’arte, in questo caso la transcultura, si pone anche come misura aurea di tutta la materia e di ogni forma possibile, un Treno che trasporta un ossario di forme antropomorfiche tra ferro e terracotta.
Qui la natura è quella dell’arte che non prevede ordini, leggi gravitazionali o comunque obblighi, ma dispone liberamente i suoi elementi come nello spazio primitivo della festa, dove non esiste né alto né basso, né orizzontale né verticale, ma tutto si dispone secondo una docile circolarità che asseconda con presenza, simultaneità ed assenza di gerarchie: pittura a carbone sulla parete, un “dormiente” in terracotta ed una sagoma come alberata ferma sul muro in ascolto del tempo.
La pittura e la scultura di Paladino diventano il teatro di una apparizione molteplice, in cui ogni evocazione ed ogni voce acquistano la forza e lo spessore dell’immagine, in cui ogni assenza si capovolge in presenza figurabile, capace cioè di rappresentare ed alludere concretamente, ma senza arrivare ad esaurire il senso. Perché non esiste senso, in quanto non esiste narrazione.
Esiste soltanto l’epifania della materia che espelle da sé forme e simboli che giacevano internamente, sotto dunque la pelle della materia stessa. La transcultura è l’iscrizione sulla pelle della materia, sulla sua superficie, ciò che giaceva inerte e nello stesso tempo urgente, nel suo lato sottostante, ma senza che questo avvenga in maniera drammatica.
Ribaltando ogni legge gravitazionale, Paladino dispone la materia su un piano inclinato, assecondando l’arrotolamento delle forme, il raggrumo delle immagini attraverso il loro spostamento da uno stato d’ombra ad uno stato di spessore, secondo il procedimento di evidenziamento della scultura.
L’artista è colui che asseconda dunque le inclinazioni della materia, mediante un processo di intensificazione capace di dare trasparenza a ciò che ha spessore ed opacità. Tutto diventa estremamente esplicito, ogni forma asseconda la propria interna urgenza. Perché nell’arte non esiste l’informe: ogni flusso indistinto prende sempre una propria sembianza ben individuale.
Semmai la forma acquista una sua capacità di opulenza, una potenzialità irradiante capace di coprire riferimenti molteplici. Così il marinaio diventa il guerriero, la barca lo scudo, il remo la lancia, i capelli le alghe, il piano delle piccole forme la terra. La transcultura è il teatro di silenziose metamorfosi colte nella loro transizione da uno stato all’altro, senza soluzione di continuità.
Ecco che Paladino reintroduce la sorpresa, la modificazione della materia che trasmuta dall’inerzia al movimento, dal disarticolato allo stato distinto della forma. Paladino ha coagulato nella materia della scultura la trasmigrazione delle forme, rispettando in ogni caso i tempi interni della loro continuità, con la mano leggera e feroce di chi vuole incidere sulla pelle del metallo il segno della dolce geometria della memoria mediterranea, fatta di temperature incandescenti eppure stemperate dalla coscienza della perdita dell’origine, dell’impossibilità di recuperare integralmente la nascita delle cose. La grandezza dell’arte attuale è quella di non poter evocare ma soltanto invocare. Questa è la religiosità laica della transavanguardia.
Su questo versante, quello della spiritualità, è già avvenuto un incontro con Brian Eno, un interscambio tra arte e musica. Ora avviene di nuovo negli spazi mitici dell’Ara Pacis di Roma. Il musicista inglese interviene anche lui con una installazione nei diversi spazi con un progetto distribuito attraverso venti radioloni portatili e piccoli altoparlanti incastonati nel soffitto. Da qui parte un fluido musicale che trascina con sé un senso orizzontale del tempo, uno scorrere frammentato e nello stesso tempo liquido di dettagli di vita concreta. Voci e sussurri che rimandano ad una dimensione tutta orientale.
Tra Paladino e Brian Eno scatta un cortocircuito di sensibilità complementare dove il primo porta con sé tutta la tradizione occidentale che corre dalla scultura longobarda, gotica, barocca per arrivare alle avanguardie storiche e l’altro a sua volta porta una sensibilità legata ad una storia della musica concreta che da Cage si immerge in una tradizione orientale del suono.
Sembra in tal modo che l’intreccio Oriente-Occidente abbia la capacità di liquefare l’immagine di Paladino nella musica di Brian Eno, e che a sua volta il suono di Brian Eno si concretizzi nell’iconografia di Paladino.
Alla fine la vaporizzazione del suono negli spazi dell’Ara Pacis crea un contatto tra la memoria classica delle figure in marmo del monumento romano con la pittura e la scultura di Paladino.
La musica di Brian Eno nella sua strutturale orizzontalità scandisce un tempo circolare che avvolge il tutto e produce una flagranza dove non esiste più distanza storica e storia degli stili, ma la formazione, quasi atemporale, di un eterno presente dell’arte e della coesistenza dei diversi linguaggi. In tal modo l’Ara Pacis si trasforma in casa dell’arte, Ara Artis.