Paladino/Eno all’Ara Pacis.

di James Putnam

Un progetto che metta insieme, all’Ara Pacis di Roma, due talenti così diversi come Brian Eno e Mimmo Paladino può sembrare un’idea singolare: ma questi due artisti non appartengono a mondi realmente separati. Oltre a essere nati nello stesso anno, il 1948, e aver studiato Belle Arti durante gli anni Sessanta, entrambi hanno lavorato, intorno alla fine degli anni Settanta, sperimentando combinazioni di elementi o moduli reiterati. Più precisamente ancora, possono entrambi individuare una relazione tra arte visiva e arte del suono. Eno ha paragonato la sua musica alla scultura, qualcosa che può essere tangibile nello spazio, che può prendere forma attraverso una dimensione temporale ripetibile. E Paladino crede che la creazione della musica dall’armonia dei toni sia paragonabile alla creazione dell’arte visiva dall’armonia delle forme. Paragona anche la disposizione delle forme compositive in pittura al contrappunto, alle note, agli intervalli, ai ritmi e alle armonie in musica. Nel 1999 hanno collaborato alla installazione, particolarmente apprezzata dalla critica, I Dormienti per il sotterraneo della Roundhouse a Londra.
Il progetto per l’Ara Pacis ha la sua genesi ne I Dormienti ma da questi si distacca per sensazioni e per collocazione. Nell’oscuro spazio sotterraneo, rivestito di mattoni, della Roundhouse la scultura di Paladino e la musica generativa di Eno erano distribuite intorno a un’area centrale di forma circolare e nella rete delle gallerie che da questo nucleo si irradiano. In acuto contrasto, l’etereo basamento di travertino bianco della struttura dell’Ara Pacis rappresenta una sfida ancora maggiore per la creazione di una installazione coinvolgente ed evocativa.

Per tutta la larghezza e la lunghezza di una parete Paladino ha creato un’installazione costituita da centinaia di vecchie forme per scarpe in legno a cui sono applicati dei piccoli uccelli in bronzo. Il visitatore viene condotto lungo questo spazio, che è quasi un corridoio, fino a giungere a Treno, una complessa installazione scultorea, un assemblage di elementi in terracotta su una struttura in acciaio, posta in diagonale sull’intera larghezza dello spazio. Il titolo suggerisce il paragone con una lunga fila di vagoni ferroviari che viaggiano da un lato all’altro dello spazio. I moduli in metallo, tuttavia, rivestono un ruolo formale e funzionale piuttosto che una significanza rappresentativa. Treno è stato appositamente costruito per l’Ara Pacis, in un grande spazio nello studio di Paladino a Paduli e poi trasportato nel laboratorio di ceramica a Faenza. Qui i vari elementi plastici in ceramica, disposti separatamente sui loro moduli metallici, sono stati messi assieme direttamente nel forno. Con l’alta temperatura l’argilla si è fusa con il metallo, costituendo un elemento facile da trasportare e installare nello spazio dell’Ara Pacis. Il suo aspetto modulare e geometrico, con diverse configurazioni della forma rettangolare, costituisce un elemento centrale della concezione scultorea di Paladino. Le strutture d’acciaio e le griglie di supporto, che ricordano il sistema di scaffali Dexion, sono state organizzate per creare un insieme di parallelogrammi e di vuoti. Questo sistema, apparentemente audace, quasi costruttivista, è anche un metodo pratico per organizzare singoli elementi su linee perpendicolari, ottenendo una composizione in cui le linee verticali e quelle orizzontali dialogano.
Sembrano essere forme allineate casualmente e, nello stesso tempo, accuratamente accatastate, suggerendo un che di provvisorio, come se l’artista potesse in ogni momento aggiungere, togliere o cambiare qualcosa, quasi nello spirito di un pittore astratto. Paladino lavora d’intuizione, il processo implica una sequenza di azioni e reazioni, attentamente soppesate ed esaminate,
affermate o rifiutate fino al conseguimento del risultato. Osservata da diversi punti di vista, la scultura si trasforma in molteplici composizioni geometriche e intesse nuove miscele di ombre.

La qualità sorprendente ed eterea della luce, che si riflette dalle pareti in travertino poroso e dal pavimento tirato a lucido, agisce da perfetto sfondo per gettare ombre da questa complicata combinazione di elementi scultorei e strutture d’acciaio. L’idea dell’ombra è particolarmente significante per l’Ara Pacis poiché l’altare fu a suo tempo orientato secondo un’antica tradizione che legava i luoghi sacri a quelli celesti. Nella sua originale collocazione al Campo Marzio, un gigantesco obelisco egizio era stato installato perché proiettasse la sua ombra dal sole verso l’altare in omaggio ad Augusto che aveva instaurato un periodo di pace. Questo funzionava come un grande gnomone od orologio solare e il vertice dell’ombra risultava miracolosamente allineato con una specifica parte dell’altare solo una volta all’anno, in occasione del compleanno dell’imperatore. Piuttosto che essere un sottoprodotto di Treno, la sua ombra diviene una parte significante del lavoro e muta il contesto dell’installazione, tanto da farla apparire contemporaneamente attuale e virtuale. Come una rappresentazione in piano della scultura tridimensionale proiettata sul pavimento, l’ombra diviene parte integrante del lavoro, né completamente dipendente né indipendente dalla scultura originale che le dà forma. L’ombra indica altro da se stessa, un dialogo fra presenza e assenza. Altera i confini della percezione, poiché contiene non solo il riflesso dell’immagine di Treno e la sua natura essenziale ma anche una traccia della sorgente di luce.
I singoli elementi dell’opera sono realizzati in terracotta, un mezzo che Paladino usa di frequente poiché lo affascina per le sue proprietà elementali e trasformative. A questo materiale tradizionalmente si attribuisce minor valore nella scala gerarchica dei materiali plastici, subordinandolo ai cosiddetti materiali nobili quali la pietra, il bronzo e il legno. Ma l’argilla è un materiale di base, materia prima che viene direttamente dalla terra, un’intensa manifestazione di energia e vita nella forma più elementale, la combinazione di terra, acqua, aria e fuoco. Tra tutte le arti la ceramica è la più intimamente connessa con la vita e in alcuni antichi miti della creazione la divinità crea la figura umana direttamente dalla terra. Il pigmento rosso nella terracotta è anche in relazione con il ferro nel nostro sangue. Fino dagli albori della storia umana è il materiale più largamente usato per realizzare i contenitori che portano il nutrimento ai nostri corpi e per costruire le case dove i corpi trovano rifugio fino alla fine della vita quando essi torneranno nuovamente alla terra. È come se Paladino fosse cosciente della connessione fra l’argilla e il corpo quando giustappone utensili domestici e tegole in cotto a figure umane accucciate in posizione fetale.

A un primo sguardo la presentazione per tipologie delle parti frammentate di Treno ricorda il deposito di un museo archeologico. Una caratteristica dell’opera di Paladino consiste nel mettere in relazione forme dall’aspetto ordinario con i tradizionali materiali dell’arte plastica, modellandoli e fondendoli in ceramica e in bronzo.
Anche se involontariamente, le figure distese di Paladino sembrano sepolcrali, quasi circondate da corredi funebri nello spazio simile a una cripta. Forse si potrebbe azzardare un parallelismo con le sculture etrusche funebri in terracotta di epoca preromana. Gli Etruschi erano preoccupati di assicurare ai loro defunti, rappresentati sui coperchi dei sarcofaghi in terracotta, una piacevole vita eterna: le loro tombe venivano infatti decorate con pitture che rappresentavano tutti gli oggetti quotidiani di cui potessero avere necessità. Nonostante le sue autentiche radici moderniste, la percezione dell’opera di Paladino è inevitabilmente legata all’estetica del frammento arcaico.
Alcuni oggetti frammentari proprio a causa della loro decontestualizzazione risultano penetranti: la loro fragilità parla di perdita. Altri possiedono una qualità insita grazie alla configurazione plastica della loro rottura e hanno quasi una maggior potenza proprio grazie alla loro frammentarietà. Il fascino estetico del frammento rappresenta un paradosso poiché la psiche umana ha necessità di percepire l’interezza piuttosto che l’incompletezza ma, allo stesso tempo, è innegabile che l’uomo abbia una passione per ciò che è perduto o distrutto.
L’espediente emblematico delle mani separate dal corpo, delle teste a forma di maschera, dei torsi spezzati, degli oggetti in metallo corroso evocano un’antichità lontana e frammenti archeologici sepolti.
Treno incorpora nella scultura objét trouvé di uso quotidiano, utensili domestici, tegole in terracotta e vecchi infissi in metallo arrugginito.

L’artista ha una predilezione per gli oggetti poveri che egli ritiene esprimano al meglio la dignità dell’umanità semplice. Un’ulteriore serie di frammenti di scultura è stata installata lungo l’intera larghezza dell’altra parete lunga del basamento. A differenza degli altri elementi di grandi dimensioni, questi frammenti di corpi sono montati a diverse altezze direttamente sul muro, voltando le spalle allo spettatore come se cercassero di fuggire dall’angusto spazio a forma di corridoio. Sono fusi in alluminio su cui è stata data una patina nera che appare combusta e carbonizzata, quasi un reperto di una misteriosa antica civiltà su cui si sia scatenata una catastrofe.
L’artista spesso combina e replica elementi del suo lavoro e crea intenzionalmente forme che possiedano sufficienti adattabilità e flessibilità da poter essere riusate in diverse combinazioni. Gli stampi permettono la produzione di multipli che poi l’artista rende unici, talvolta rompendo le figure in frammenti e riassemblandole in modo diverso. La frantumazione degli elementi plastici di Treno certamente conferisce loro un’appropriata relazione con l’altare antico che è stato esso stesso ricostruito da numerosi frammenti rinvenuti dagli archeologi nel suolo intriso d’acqua.
Dopo averli installati sulla parete, Paladino ha inframezzato i frammenti con una serie di delicate linee disegnate. Ha considerato molto importante improvvisarle direttamente sul posto, incidendo direttamente l’intonaco ed evidenziandole con il carboncino.

Il lavoro di Paladino rende sfumati i confini tra figurazione e astrazione, poiché, pur con forme riconoscibili, non risulta né narrativo né simbolico. Sarebbe perciò erroneo cercare interpretazioni o significati nascosti nelle sue immagini enigmatiche, nei moduli segreti o segni criptici. Egli crea i suoi caratteristici archetipi personali, un repertorio di forme generiche, idealizzate che egli può riusare in diverse configurazioni nei suoi quadri, nelle sue sculture e nelle installazioni. Esse non rappresentano il mondo reale ma sono entità prototipiche in se stesse che si conformano alla sua filosofia modernista. Sono in fin dei conti forme universali, fondamentali per la nostra sensibilità umana e noi siamo subconsciamente condizionati a reagire alle sfumature della forma, del gesto e della spazio. Sebbene la loro origine sia al tempo stesso geometrica e naturale esse possono essere lette a un livello puramente astratto. Questo conduce a una complessa relazione visiva fra immagini rappresentative e astratte quando esse sono giustapposte o quando si fondono l’una nell’altra. In alcuni suoi lavori egli compone la sua grafia, costruita di gesto e di tratto, che oscilla tra segno e immagine rappresentativa, anche se i segni appaiono come misteriose rune o geroglifici sono, in effetti, più vicini alle pennellate sulla tela di un pittore astratto.
Questi segni criptici sono inscritti sulle numerose facce del grande cerchio di alluminio installato al piano superiore dietro l’antico altare.

All’interno della prima stanza dell’area centrale Paladino ha dipinto una serie di grandi forme geometriche, direttamente sulle superfici delle pareti interne.
Queste composizioni rosse e bianche trovano precedenti nei suoi lavori, scaturiti dalla passione per l’opera suprematista di Kasimir Malevich (1878-1935), pioniere dell’arte astratta geometrica. Il rosso è fondamentalmente un colore sensuale, capace di stimolare l’immaginazione e si associa sempre con urgenze, impulsi ed emozioni, suggerisce sentimenti di eccitazione, energia, velocità, forza, pericolo, passione e aggressione. Ma è universalmente percepito che il rosso, il colore del sangue e del fuoco, rappresenta la vita e la vitalità, dal momento che è anche il colore dell’energia del sole che trasmette, irradiandola, la sua forza vitale all’umanità. Il rosso e il bianco sono la combinazione di colori più potente usata nei simboli, nelle bandiere, negli slogan pubblicitari e nei marchi di imprese. Le pitture murali di Paladino perciò creano un’atmosfera intensa, fortemente carica all’interno di questo spazio conchiuso, labirintico che circonda la piccola stanza proprio come una camera di sepoltura.
In questo sancta sanctorum finale l’artista ha installato una scultura antropomorfa in bronzo, con un ramo d’albero che si proietta fuori dal torso come a esprimere crescita e forza vitale. Secondo Paladino il ramo potrebbe essere in relazione con le pratiche della rabdomanzia dove un ramo di salice o di nocciolo a forma di “Y” viene adoperato per localizzare sorgenti sotterranee od oggetti nascosti. Una scultura collegata a questa, che comprende anch’essa questo ramo biforcato sormontato da un cappello a cilindro, si proietta dalla parete del recinto interno nello spazio principale, quasi a stabilire una dialettica fra interno ed esterno.

La musica di Eno per l’Ara Pacis, lontano dall’essere semplicemente una colonna sonora per accompagnare ed elevare l’installazione di Paladino, costituisce parte integrante e complementare dell’intera opera. L’obiettivo è quello di creare un brano musicale che animi la scultura di Paladino, liberando qualcosa di profondamente sepolto in essa ed evocando un’aura di infinita continuità e coerenza che pervade tutta l’opera.
L’approccio personalissimo di Eno nella creazione e composizione musicale è considerato da molte parti come un vero e proprio genere dell’arte contemporanea.
Diversamente dalle composizioni tradizionali dove i suoni di tutti gli strumenti sono organizzati in uno schema prestabilito, Eno lavora con piani musicali che si muovono nello spazio indipendentemente gli uni dagli altri per creare un panorama sonoro riccamente intessuto. Questi piani, che possono rientrare nella definizione di musica ambient o generativa, fluttuano liberamente, incontrandosi continuamente in combinazioni imprevedibili e irripetibili.
Sebbene abbia creato del software per la Musica Generativa nel 1996, l’interesse per il concetto fondante risale agli anni della sua formazione quando, ispirato da musicisti di avanguardia, fece i primi esperimenti usando campioni su nastro magnetico in loop e tecniche di cambi di fase. Il registro stilistico peculiare di Eno, nonostante le sempre più vaste possibilità sonore offerte dagli avanzamenti tecnologici nel campo della registrazione e della riproduzione, è basato sempre sul principio fondamentale che si possa costruire una struttura musicale, bella e complessa, muovendo da un punto di partenza molto semplice.
Come una sorta di alchimia del suono la manipolazione degli elementi sonori crea una complessità progressivamente sempre più sorprendente, a partire da un’iniziale semplicità.
Eno utilizza il pianoforte preparato e talvolta sovrappone suoni improvvisi e frammenti parlati che sono messi in loop, dissolvono e assolvono, sono rallentati o velocizzati, amplificati o attenuati fino a risultare dei sussurri. I piani musicali che si trovano sia isolati che combinati con altri sono mixati in tracce di diversa lunghezza con l’inserimento anche di periodi di silenzio. Gli arpeggi lenti e continui e il ritmo da loro creato costruiscono una spinta ma non raggiungono mai un climax. Ciò produce suoni che si ripetono in cicli casuali poiché è evidentemente improbabile che i piani musicali si sincronizzino nuovamente durante la progressione del brano nel tempo. La pratica della costruzione di piani sonori, messa in opera da Eno, è un processo di assimilazione e combinazione che produce una nuova entità in continua evoluzione. Comprende una relazione unica tra un elemento noto, la pre-programmazione, e un elemento sconosciuto e casuale. Ciò crea configurazioni, su più piani, intricate e imprevedibili. È un modo di comporre che implica l’attivazione di un insieme di regole (o un sistema) che produce musica che è ‘organica’ nel senso che è costantemente in mutazione e in rinnovamento. Uno degli aspetti più intriganti e affascinanti è il non sapere cosa sarà, pur sapendo che sarà diverso a ogni ascolto. A differenza delle composizioni musicali convenzionali che hanno un inizio e una fine predeterminata, la musica generativa può avere durata infinita con piani sonori che si riconfigurano costantemente in modi diversi. La pratica artistica di Eno implica una collaborazione fra lui stesso e i meccanismi tecnologici che utilizza per creare la sua musica; ma qui implica anche una collaborazione tra la musica e l’ambiente, la scultura e i dipinti di Paladino combinati con lo spazio architettonico dell’Ara Pacis. La presentazione e la propagazione della musica è sempre un fattore attentamente soppesato nelle installazioni di Eno e la scelta e la posizione delle singole fonti sonore è un aspetto di grande importanza.
All’Ara Pacis queste sono inframezzate all’installazione di Paladino e constano di più di venti lettori di CD portatili e di numerosi diffusori sonori. Per ogni riproduttore è stato registrato un disco diverso che costituisce un piano musicale unico composto di diverse tracce indipendenti. Usando il meccanismo di selezione casuale e di ripetizione automatica dei brani di cui ogni riproduttore è dotato, le diverse tracce vengono attivate secondo una sequenza imprevedibile così da poter produrre infinite permutazioni del suono nello spazio. I singoli diffusori installati all’Ara Pacis variano da casse ben nascoste a più visibili unità a griglia fino ai diffusori a forma di fiore, caratteristici di Eno.
Come vere e proprie sculture questi fiori sono costituiti da minuscoli diffusori, montati su alti stativi
metallici, che oscillano in relazione al suono che emettono. I vari piani musicali, separati e distribuiti fra i lettori CD e i diffusori, si combinano in modi sempre diversi e poiché il suono emana da così tante fonti differenti, pare quasi suggerire una forma vivente palpitante.
Gli esseri umani tendono naturalmente a ricercare dei modelli nella musica e a captare gli intervalli e le singole note. Ma la sorprendente molteplicità di elementi nella musica di Eno permette all’ascoltatore di apprezzare e valutare il suono in sé stesso, ignorando i suoi componenti strumentali indipendenti o le sue influenze culturali. Qui la musica è una sorta di stato atmosferico idealizzato che non richiede un’attenzione, uno sforzo, una concentrazione cosciente all’ascoltatore. I suoni morbidi possiedono una qualità soave e fluttuante, costruendosi e decostruendosi di nuovo.
Il riverbero dona al brano una qualità eterea quasi inquietante che slitta lentamente nel tempo mentre i piani si sovrappongono, si intrecciano, si fondono e si reiterano contrapponendosi. Questa musica, onnipresente nello spazio espositivo, consente all’ascoltatore di immergersi totalmente e abbandonarvisi temporaneamente così da fluttuare alla deriva nello spazio etereo dell’installazione. L’esperienza della musica, sebbene all’ascolto risulti composta da raggruppamenti e combinazioni degli stessi elementi base, è unica in ogni singolo momento durante la progressione del brano.
Questa configurazione complessiva del suono all’Ara Pacis fornisce una dimensione spaziale oltre la stereofonia assumendo la forma di una ‘scultura di suono’.

Eno e Paladino hanno deciso di trasformare la struttura del loro lavoro usando frammenti ripetuti per creare interrelazioni in nuove dimensioni di spazio e di tempo. Espandendo e assemblando singoli suoni o moduli visivi, i frammenti si riuniscono per costituire un insieme armonioso e coerente. Stabiliscono connessioni complesse e sfaccettate che possono essere lette da un punto di vista formale come emozionale, fisico come psicologico. L’azione reciproca di vari elementi separati da spazi o intervalli in un modulo collega l’aspetto preorchestrato con quello casuale. Paladino ritiene che affidarsi al caso possieda una componente di destino e di unità artistica piuttosto che di pura casualità. Combinata con la musica di Eno la sua installazione è permeata da un senso coerente di flusso e riflusso, fra i due poli opposti di transitorietà e continuità, creando un temporaneo stato di emergenza, il contrappunto tra informale e formale.
Nell’esperienza dell’Ara Pacis l’osservatore, che è anche ascoltatore, non si trova nell’opera semplicemente come parte di essa, ma continua a sostenere il ruolo di osservatore e di ascoltatore anche essendo all’interno di essa. Non si è né completamente inclusi né completamente esclusi dall’opera, che agisce come una mappa che permette di esplorare luoghi immaginari della psiche fuori dall’esperienza ordinaria.