Conversazione con Mimmo Paladino

di Federica Pirani

F. P. Intervenire all’interno dell’Ara Pacis ha comportato, anche solo implicitamente, un confronto con il tema della pace? Peraltro la Pax romana è molto diversa dall’odierna concezione di pace, alludendo, come suggerisce la radice Pac (pactus, pactuare), a un accordo tra gli uomini e configurandosi come “assenza di guerra” o, meglio, come fine della guerra. Prosperità e benessere, il ritorno all’età dell’oro, ben rappresentato dai rigogliosi racemi d’acanto e dalla figura femminile che nutre i due gemelli raffigurati nei rilievi dell’altare, sono i temi che ispirano il monumento antico. Pensi che l’arte contemporanea ha, o potrebbe avere, ancora oggi un ruolo significativo in questo ambito?

M. P. Io penso che anche al di là del luogo dove ci troviamo, l’arte sia di per se stessa portatrice di valori di pace e rappresenti uno spiraglio di positività. L’arte spinge alla riflessione, alla critica, mentre nei momenti tragici della guerra l’uomo non pensa.

F. P. Richard Meier, l’architetto dell’Ara Pacis, ha utilizzato la luce come materiale da costruzione accompagnando il visitatore in un percorso scandito da diverse intensità luminose. Inoltre, ha evitato l’uso di elementi curvilinei ritenendo «sia impossibile tracciare qualsiasi altra curva avendo di fronte il grande cerchio del Mausoleo di Augusto». Ora il grande cerchio in alluminio che simbolicamente apre la mostra, una figura geometrica sfaccettata costruita a partire da elementi piani, un moderno “mazzocco”, entra in dialogo proprio con l’architettura e la scultura antica. Rielaborando il solido prediletto da Paolo Uccello, che lo trasformava in copricapo fantastico per i suoi cavalieri dipinti, sembra che questa opera si proponga come soglia, elemento di passaggio su cui affiorano segni arcaici e antiche scritture.

M. P. Questo lavoro, il grande cerchio nero, è proprio ispirato al “mazzocco” di Paolo Uccello: è un elemento di gioco che lui adattava a copricapo delle sue figure, ma è anche un segno guerresco ed un elemento del pensiero. Mi affascina questa capacità di trasformare una figura geometrica, di studio, in un’immagine fiabesca e fantastica, anche se ritengo che alla base di ogni progetto artistico ci sia sempre una riflessione logica, direi razionale. È necessaria un’ancora razionale, anche se poi viene stravolta dall’intuizione geniale dei diversi artisti. Qui risiede la qualità dell’opera. Il cerchio è ricoperto di segni, di graffiti che sono un tema ricorrente in questa mostra. D’altra parte proprio in questo museo dell’Ara Pacis ritroviamo i graffiti che ci raccontano e rappresentano le diverse stratificazioni storiche del monumento. È il primo segno che l’uomo ha tracciato sulle pareti della caverna, un gesto primario, un graffio nel muro con una pietra. L’opera è comunque in dialogo con l’architettura contemporanea di Meier e vive nella contemporaneità. Penso che l’architettura di Meier non sia solo un involucro che esalta le qualità cromatiche e artistiche dell’Ara ma rappresenti una creazione spaziale contemporanea che deve essere sostenuta proprio perché costituisce un’impresa stupefacente in una città come Roma. È il principio della compresenza di arte antica e contemporaneità che ritengo essere un valore di per sé, al di là delle polemiche, dello specifico giudizio estetico e della qualità dell’opera che compete a ciascuno. La possibilità che qualche artista, a cominciare dalla mia esperienza, possa confrontarsi con lo
spazio storico rappresentato dal monumento e, soprattutto, con il segno contemporaneo della nostra civiltà mi sembra formidabile.

F. P. Nel caso dell’architettura contemporanea che avvolge l’Ara Pacis hai dialogato con le pareti luminose realizzando un’opera permanente, il mosaico che si affaccia sul Lungotevere. Tra le diverse tecniche artistiche, il mosaico è quella che più di altre riflette e interagisce con le mutazioni e i riverberi della luce durante la giornata. Per la mostra, invece, hai scelto uno spazio diverso, più intimo, direi sacrale. Sei rimasto affascinato dalla spazialità sotterranea della nicchia in corrispondenza dell’Ara?

M. P. Il mosaico è un’opera che interagisce con la luce. L’andamento convesso delle superfici del mosaico per l’Ara Pacis riflette, infatti, la luce zenitale. Quando ho visitato per la prima volta questo spazio sottostante, rimasi colpito dalla “cella” centrale che ha una strana configurazione labirintica e a sua volta contiene la piccola nicchia, un fulcro, sottostante all’Ara. Ho collocato proprio in questo spazio una scultura, realizzata qualche tempo fa. La figura guarda verso il muro e volge le spalle al visitatore. Dalla sua schiena partono dei rami arborei. Ho usato quest’opera in un’installazione recente realizzata per un acquedotto tra le montagne del Sannio. È l’evocazione del rabdomante, un’immagine umana che cerca e scopre le fonti d’acqua, ma è anche, allegoricamente, la figura dell’artista che quotidianamente si pone interrogativi e ricerca qualcosa.

F. P. Credo che l’aspetto più interessante di questa mostra all’Ara Pacis, oltre naturalmente al rapporto imprescindibile col luogo e con il significato simbolico e storico del monumento archeologico, sia la dimensione complessiva dell’intervento artistico. Le diverse opere, possono essere contemplate singolarmente, mostrando la loro particolare attitudine ad occupare lo spazio e a captare la luce. Considerate, però, nel loro insieme diventano elementi di un dialogo, di un itinerario iniziatico verso il luogo più sacro, la nicchia sotto l’Ara, “la camera segreta” dove affiorano dalle pareti, come emersi dopo un rito sciamanico, segni e figure archetipe da decifrare e interpretare. Tutte le opere, quindi, si configurano come un’unica installazione complessa interagendo con gli spazi abitati dalla musica di Brian Eno. Quale è stata l’idea sottesa alla scelta delle diverse opere che ormai si configurano come un’unica, articolata, installazione?

M. P. Penso a questo lavoro dell’Ara Pacis come ad un’opera totale, unica, come se si guardasse un solo quadro. Per questo non voglio appendere nessun dipinto alle pareti. Tutto il lavoro è pensato, immaginato ed anche modificato rispetto alla sua idea originaria, soprattutto in base allo spazio ed anche alle esigenze di Brian Eno che avrà i suoi suoni, le sue forme concrete.

F. P. Tempo e memoria, miti e linguaggio artistico, sono i territori attraversati da questi lavori che trovano nell’elemento figurale il tratto maggiormente significativo e unificante. Corpi in posizione fetale casualmente affastellati tra le griglie di alluminio di labirintici vagoni, prigioni del ricordo che viaggiano su binari sconosciuti frammenti di figure combuste volgono lo sguardo verso il muro; accanto, ieratiche Dulcinee con le braccia di corteccia cercano di afferrare l’amore fuggente del cavaliere solitario; scarpe volanti e uccellini di bronzo si affastellano lungo una parete, ironicamente disattendendo le imposizioni crudeli del dio della gravità; dormienti pietrificati o figure sognanti attendono il risveglio dall’incantesimo, mentre al centro, nella “casa dentro la casa”, metamorfosi di segni rossi affiorano sulle pareti e un rabdomante dai magici rami ricerca la fonte nascosta. Una cosmogonia sincronica, costruita con reperti di vissuti individuali accanto ad altri tratti da memorie collettive, segni arcaici del mondo sotterraneo insieme a morfemi apparsi dalla storia dell’arte. Visitare la mostra non è solo osservare delle opere ma vivere, quindi, un’esperienza in uno spazio diverso e senza tempo in cui tornino a circolare storie e leggende che rendano abitabile ed esperibile esteticamente la vicenda umana.

M. P. La figura è un tema ricorrente in questo lavoro. Quella dalle sembianze umane è concentrata nello “scrigno” al centro dell’architettura e si dirama poi in frammenti sulle pareti. Queste tracce derivano dal film El Quijote, sono i resti di una scena nella quale venivano bruciate statue di legno e un cavallo. I brandelli, le schegge sopravissute alla combustione sono poi state fuse e affiorano sulle pareti insieme ai graffiti.

F. P. Ormai da molti anni sembra di percepire che la dimensione scelta per la tua ricerca artistica abbia una costante ambientale. Non è raro che realizzi alcune opere direttamente sul muro, come i graffiti al MADRE di Napoli o i mosaici all’Ara Pacis e al Teatro Argentina di Roma, oppure crei lavori complessi, dove convivono e interagiscono diverse forme espressive: sculture, pitture, graffiti, installazioni, interventi musicali. È probabile che questa attitudine ad interventi in scala ambientale abbia tracciato come un filo rosso che ha portato a scegliere le tue ricerche estetiche per lavori che potenzialmente miravano ad integrarsi con l’architettura urbana o con il paesaggio naturale. Penso a I Dormienti, realizzata nel 1998 per la Fonte delle Fate di Poggibonsi o ad Una Piazza per Leonardo, opera ultimata nel 2006 per la riconfigurazione dell’ingresso del nuovo Museo Leonardiano di Vinci, alla Torre Ghirlandina di Modena ma anche alla straordinaria e ormai storica installazione della Montagna di sale a piazza del Plebiscito a Napoli che ha trasformato un non luogo in uno spazio teatrale e popolare all’aperto.
È ormai questa la dimensione che preferisci nei tuoi lavori?

M. P. A ben pensare io non sono mai stato interessato all’opera chiusa nel rettangolo della tela anche se, naturalmente, ho realizzato molti quadri. Lo sconfinamento è una dimensione che mi appartiene da sempre. Ad esempio lo storico lavoro del 1977, emblematicamente intitolato Mi ritiro a dipingere un quadro, esprimeva un’idea più attraverso il titolo che nella concretezza dell’opera. Si trattava, infatti, di un piccolo dipinto ad olio ma questo era inserito e si relazionava con lo spazio architettonico della galleria attraverso una serie di disegni sul muro. Le radici si trovano nell’esperienza dell’Arte povera e dell’Arte concettuale perché ogni cosa ha delle fonti di ispirazione, nessuna opera nasce dal nulla ma, pur nell’originalità dell’espressione individuale, affonda le proprie radici nella storia dell’arte. Un giovane artista negli anni Settanta si confrontava necessariamente con un contesto e con delle ricerche precedenti. Io peraltro ho da sempre un forte interesse personale per il concetto di spazio come geometria, architettura. Perfino in un allestimento temporaneo come quello per la Ghirlandina di Modena ho manifestato un’intenzione, ludica, di gioco, di festa intorno ad un monumento simbolico della città.

F. P. Anche nell’esperienza di questa mostra hai lavorato insieme ad un altro artista, Brian Eno.
Questa dimensione condivisa dell’esperienza creativa è stata sempre soddisfacente? Penso ai lavori con Michelangelo Lupone, Brian Eno, Lucio Dalla ma anche alle scenografie teatrali con Mario Martone o al tuo ruolo di regista del Don Chisciotte. Trovi nuovi stimoli e non fonte di potenziale conflitto in questi incontri?

M. P. Ho sempre avuto una grande curiosità verso le nuove esperienze, sperimentare cosa può succedere mettendo insieme un segno poetico ed uno grafico, un segno musicale ad uno pittorico. Non si tratta di pensare ad una giustapposizione, ad un elemento che si somma con un altro, ma ad un’entità diversa frutto dell’incontro di due forme espressive, di un’alchimia creativa. Credo che questa capacità di incontro avvenisse anche nell’arte del passato tra un architetto barocco e il pittore che realizzava la pala di un altare. Nelle mie esperienze teatrali, per esempio, quasi mai l’artista che mi ha chiamato a collaborare ha pensato al mio ruolo come scenografo. Ha chiamato un pittore che potesse interagire nello spazio teatrale secondo delle idee, delle convinzioni ed una sensibilità comune.

F. P. Questa tua capacità di metterti in gioco sembra persistere anche nelle sperimentazioni delle diverse tecniche artistiche, nella ricerca su vari materiali che condividi con grandi artigiani ed artisti.

M. P. Raramente ho collaborato con artigiani che fossero fermi od “ostinati” nel proprio lavoro. Fin dai laboratori di stampa con Giorgio Upiglio a Milano, con gli incisori Bulla, con Costantino Buccolieri per il mosaico, ho trovato grandi artigiani disposti a mettere in gioco e stravolgere la propria “sapienza”. Le prime volte che ho lavorato con Upiglio io non avevo mai realizzato una lastra in vita mia. Inizialmente ero timido, ma poi lui stesso mi invitò ad usare gli acidi con estrema libertà, stravolgendo le regole consolidate e mettendomi immediatamente a mio agio; ottenemmo entrambi risultati inaspettati. Anche con Davide Servadei della Bottega di ceramica Gatti, quando buttiamo nel forno le sabbie di Stromboli o il corallo di Sorrento, appaiono spesso effetti sorprendenti. Con la sua tecnica e la mia voglia di sperimentare otteniamo risultati di grande soddisfazione per entrambi.

F. P. Pensi che possa esistere ancora o è, ormai, una semplice utopia astratta considerare l’architettura e l’urbanistica come le arti della modernità all’interno delle quali l’esperienza estetica possa trovare una sua diffusione democratica? Alcuni tuoi interventi nell’ambito del design, penso alla lampada Dulcinea progettata per Danese o alla considerazione che manifesti verso il lavoro di un artista come Bruno Munari sembrano andare in quella direzione.

M. P. Ci sono dei momenti in cui si intuiscono delle possibilità. Così è stato per la lampada, una scultura da cui scaturisce la luce, un pezzo di fantasia creativa accessibile, che ciascuno può portarsi a casa, un oggetto d’uso ma altrettanto fantastico. Munari, poi, è stato sempre una mia grande passione fin dai tempi del liceo, un breviario quotidiano per la percezione visiva insieme ad un esempio felice della dimensione ludica dell’esperienza estetica che io amo particolarmente. Faceva oggetti inutili insieme ad altri utilissimi, pratici, di semplice uso. Era l’espressione della possibilità di realizzare oggetti “democratici” che, a quell’epoca, costituivano una novità assoluta. Che una sedia, una lampada, un tavolo, di evidenti qualità estetiche, potessero andare in mano a tutti era, in quegli anni, una fantastica conquista. Il design dovrebbe essere questo. Peraltro, anche alcuni interventi artistici contemporanei in luoghi insoliti, non convenzionali – da un parco ad una piazza, dalla metropolitana ad un’area archeologica – possono innescare un “corto circuito” coinvolgendo un vasto pubblico in un originale e inaspettato contesto estetico come avvenuto con la Montagna di sale a Napoli.

F. P. Questo “corto circuito” si manifesta anche all’Ara Pacis dove diversi linguaggi, dalla circolarità espansa della musica di Brian Eno, alle tue immagini pittoriche e scultoree, alla limpida geometria del disegno spaziale, entrano in contatto con le forme e le figure del mondo classico annullando la distanza storica, ricreando e rinnovando in una nuova epifania l’eterno presente dell’arte.